INTRODUZIONE
«Padre Santo, ha
riposato stanotte?». «Abbastanza, come sempre».
Quella prima
notte di pontificato, tra il 28 e il 29 ottobre, era stata lunghissima.
Nell'appartamento del Segretario di Stato - disabitato da quattordici anni,
cioè dalla morte del card. Maglione - il nuovo Papa era stato alloggiato
alla meglio, solo, al vertice di un mondo che stava pronunciando il suo nome con
curiosità, con smarrimento, con diffidenza, con amore a seconda di quanto
si conosceva chi realmente fosse l'uomo che era diventato, per volontà di
Dio e degli uomini, Papa Giovanni XXIII.
Dalla loggia della basilica, con
le vesti che gli avevano aggiustato con qualche difficoltà sulla solida
corporatura nella "stanza delle lacrime", cioè nella sacrestia della
Sistina, Papa Giovanni aveva visto per la prima volta l'immensa folla riunita
sulla piazza e aveva dovuto convincersi che ora era lui responsabile davanti a
Dio di tutte quelle anime. E quella era soltanto la minima parte del gregge,
immenso, diffuso su tutta la terra, che in un istante gli era stato
invisibilmente consegnato dalla volontà di Dio. Se in piazza san Pietro
erano migliaia di persone, ad applaudire, nel mondo erano circa mezzo miliardo
di anime che da quel momento, guardavano a lui, aspettavano il suo esempio e la
sua parola, per trovare la via della salvezza. Per un uomo di settantasette
anni, che si era convinto di morire a Venezia, avrebbe dovuto significare uno
choc inaudito; invece bastò poco tempo perché Roncalli si
convincesse che, in definitiva, anche fare il Papa, per chi aveva sempre
compiuto la volontà di Dio, non era poi tanto difficile. In una
annotazione del Giornale - la prima da pontefice, nel ritiro spirituale del
novembre 1959 - scrive: «Da quando il Signore mi ha voluto, miserabile qual
sono, a questo grande servizio, non mi sento più come appartenente a
qualcosa di particolare nella vita: famiglia, patria terrena, orientazioni
particolari in materia di studi, di progetti, anche se buoni. Ora più che
mai non mi riconosco che indegno ed umile servus Dei et servus servorum Dei.
Tutto il mondo è la mia famiglia. Questo senso di appartenenza universale
deve dare tono e vivacità alla mia mente, al mio cuore, alle mie
azioni».
Nella notte, aveva dato a mons. Bacci e a mons. Dell'Acqua i
suoi pensieri per il primo messaggio al mondo, che avrebbe letto il giorno dopo.
Mentre intorno a lui fervevano i lavori per metterlo il più presto a suo
agio nella nuova dimora, egli pensava al gregge che gli era stato affidato, e
cercava di ricondurre immediatamente non solo la propria vita ma anche la
giornata e le ore alla semplicità e alla naturalezza di sempre. Chi
sarebbe riuscito a prendere sonno in una notte come quella? Eppure, lui aveva
riposato «abbastanza, come sempre». La disciplina dell'accettazione
del volere di Dio non era stata curata invano in oltre sessant'anni di vita
ecclesiastica; ed ora dava il miglior frutto per il quale era stata ogni giorno
approfondita in una trasparenza costosa ma spontanea.
Ciò che
colpisce e commuove maggiormente in lui, nei primi momenti e nei primi giorni
del pontificato, è il senso spontaneo dell'universalità del
"servizio" che egli ha accettato; e, nello stesso tempo, i caratteri di
domesticità rustica e squisita insieme che egli ha unito nella propria
condotta. La prima volta che è salito sulla sedia gestatoria - con una
certa trepidazione per le vertigini che provava - il suo pensiero è
andato a suo padre, a Giovanni Battista Roncalli, nato e morto sui campi, con la
zappa e la falce in mano. Papa Giovanni si è sentito giustificato e
confortato da quel pensiero d'umiltà proprio nel momento in cui veniva
sollevato anche fisicamente, nella responsabilità più alta della
terra. Il confronto gli era spontaneo: come i suoi erano stati fedeli alla
terra, cioè alla loro vocazione precisa, così egli reimparava da
loro la stessa fedeltà alla propria vocazione, anche se si trattava della
vocazione che nessun uomo oserebbe sognare.
Quando il segretario, al
termine di quella giornata meravigliosa e sfibrante, gli chiese a che cosa
pensasse, egli rispose: «Penso alla mia mamma, al mio papà, alla mia
casa di Sotto il Monte». Il mondo stava diventando la sua "casa";
l'umanità intera era già la sua "famiglia"; ma il metro intimo non
mutava: tutto veniva riportato all'intimità e all'innocenza della
famiglia e della casa di Sotto il Monte. «Se non tornerete come fanciulli,
non entrerete nel Regno dei Cieli»: egli entrava nel regno degli uomini,
diventava il pastore del Regno dei Cieli che nasce in terra con dentro il cuore
e la fantasia immagini d'infanzia, consolazioni d'innocenza lontana e sempre
rivissuta.
Tutto ciò, naturalmente, nella misura che risulta uno
degli aspetti della sua simpatia umana e religiosa; e con la prontezza di chi
è sempre stato capace di trovare la pace nel compimento della
volontà di Dio.
Dopo la benedizione Urbi et Orbi fu riportato nella
Sistina dove ricevette ancora una volta l'"obbedienza" dei cardinali. Alla prima
"obbedienza" si era mostrato contrariato a che, secondo la prescrizione, gli
baciassero anche il piede, oltre che la mano. Aveva impedito quel gesto,
giungendo senza altro nell'abbraccio rituale a ciascuno dei porporati... La sua
"rivoluzione" - com'è stata chiamata - nasceva da piccoli gesti, da
sfumature; e proprio per questo si preannunziava profonda e irreversibile.
Appena eletto, riprendendo una tradizione interrotta da Leone XIII, aveva
deposto in capo a mons. Di Jorio, segretario del conclave, il proprio zucchetto
rosso in cambio di quello bianco che gli veniva ora imposto; e così gli
aveva garantito la porpora.
In mezzo alla folla di dignitari e di operai
che gli si serrava intorno per sistemare un'infinità di cose urgenti,
egli restava sereno, non privo, dopo il grande momento d'emozione e di
smarrimento, di una vena di salutare umorismo. Aveva sempre guardato alla vita
ed agli uomini con simpatia; ed ora quella simpatia cresceva in lui nella misura
stessa che il nuovo ministero lo avvicinava all'intera umanità. Volle che
il messaggio che stava preparando per il mondo intero vibrasse di quella
simpatia, e che essa non fosse diminuita o spenta sotto la solennità
classica del latino in cui i suoi appunti in italiano confluivano, sotto la
penna esperta di mons. Bacci.
Gli furono sottoposti i primi telegrammi di
benedizione per le diocesi di Venezia e di Bergamo e per i suoi familiari a
Sotto il Monte. Papa Giovanni approvò e si ritirò in un angolo
dell'appartamento, a recitare il breviario.
«NON UNA CASA ESTRANEA»
Il 29 ottobre, di prima mattina, dopo aver
celebrato la messa, si mise a rivedere il testo latino del radiomessaggio che
avrebbe rivolto poco dopo a tutto il mondo.
Alle dieci discese nella
Cappella Sistina, per la terza "obbedienza" prescritta da parte dei cardinali.
Il card. Tien-Ken-Sin gli venne incontro su una poltrona a rotelle: era stato
infortunato in Germania in un incidente automobilistico. Appena Papa Giovanni lo
vide, si alzò, scese dal trono e gli andò incontro; lo
abbracciò con effusione. Poi tornò al trono, e dopo l'"obbedienza"
lesse il messaggio. Era un messaggio tipicamente "giovanneo" in cui, a
posteriori, è facile riscontrare lo spirito e il linguaggio che
informeranno il ministero e il magistero di tutto un pontificato.
«Il
nostro pensiero - egli disse - va in special modo ai vescovi, ai sacerdoti, alle
suore e a tutti i fedeli che vivono in quelle nazioni ove la religione cattolica
non ha alcuna libertà, ove i sacrosanti diritti della Chiesa sono
calpestati... Sappiano essi tutti che noi ne condividiamo le pene, le angustie,
le amarezze, e che supplichiamo il Signore, datore di ogni bene, affinché
ponga finalmente termine a tali persecuzioni disumane... Illumini Iddio la mente
dei capi di quelle nazioni. Perdoni ai persecutori. Conceda a tutti tempi
migliori e più felici.»
Non mancò l'apertura già
ecumenica nel saluto alle Chiese d'Oriente, cattoliche e non cattoliche:
«Come la Chiesa occidentale, così con uguale affetto paterno
abbracciamo la Chiesa orientale; apriamo altresì il cuore e le braccia a
tutti coloro che sono separati da questa Sede Apostolica, ove Pietro stesso vive
nei suoi successori. Desideriamo ardentemente il loro ritorno nella casa del
Padre comune... Vengano tutti, li scongiuriamo, in piena e amorosa
volontà. Non entreranno in una casa estranea, ma nella loro casa
propria».
Finì con un invito alla pace: «Il nome di pace
è dolce, ma ciò che significa è salutare; c'è
però grandissima differenza fra pace e schiavitù. La vera pace
è tranquillità nella libertà».
Il mondo gli
appariva una "casa"; e per nessuno egli voleva che quella casa apparisse
"estranea". Già dal primo istante del "servizio" pontificale, Papa
Giovanni è andato vedendo con chiarezza il significato che assumeva
l'essere Papa proprio lui, un uomo, cioè che aveva avuto
provvidenzialmente - ora se ne rendeva pienamente conto - i contatti più
diversi e diretti sia coi cattolici che coi non cattolici, alla periferia
geografica ed amministrativa della Chiesa; esperienza e contatti che adesso lo
ponevano in grado di non aver bisogno, almeno in un primo tempo, di
documentazioni offertegli da altri.
I bisogni della Chiesa, i problemi
religiosi e morali dell'umanità li aveva sentiti vivi e angosciosi, per
cinquant'anni, a contatto con le responsabilità e con le persone
più diverse. Ciò che molte volte avrà giudicato come
un'esperienza preziosa, ma destinata ad esaurirsi in sé stessa, ora gli
si rivelava come il più profondo e silenzioso disegno della Provvidenza
nei suoi confronti.
Capiva di non poter accettare affatto la definizione
che la stampa aveva diffuso e che non pochi cardinali, anche fra i suoi
elettori, sentivano come spontanea ed esatta: quella di Papa di
transizione.
Nel ritiro spirituale dell'agosto 1961, a Castelgandolfo,
annoterà nel Giornate dell'Anima: «Quando il 28 ottobre i cardinali
della Santa Chiesa Romana mi designarono alla suprema responsabilità del
governo del gregge universale di Gesù Cristo, a settantasette anni di
età, la convinzione si diffuse che sarei stato un papa di provvisoria
transizione. Invece, eccomi già alla vigilia del quarto anno di
pontificato, e nella visione di un robusto programma da svolgere in faccia al
mondo intero che guarda ed aspetta».
I "papi di transizione", del
resto, sono stati sempre, dei "giovani" che erano morti molto presto; i
"vecchi", in genere, avevano resistito sempre più a lungo. Nella storia
del pontificato c'era un precedente molto famoso ed eloquente: quello di Sisto
V, che, nel 1585, era entrato in conclave appoggiato a un bastone, con la voce
fioca e l'aria di uno che non debba durar molto. Appena eletto, gli era tornata
di colpo la salute e l'entusiasmo, tanto da fare di lui una delle figure
più importanti e decisive della controriforma. Papa Giovanni accettava la
nuova responsabilità come la continuazione di quelle altre che nella vita
aveva accettato per amor di Dio e per la salvezza delle anime. Era lieto che gli
si fosse chiesto tanto. Era umile, ma sapeva che Dio lo avrebbe reso capace di
compiere nel migliore dei modi le stesse cose che gl'ispirava. Alcune sue norme
classiche di vita e di attività gli tornavano ora in mente, e cercava di
applicarle al nuovo compito. Fra queste prediligeva quella che raccomanda di
veder tutto dissimulare molte cose, correggerne alcune. Meditava anche su
quell'altra che dice che un triste prete è un cattivo prete. Ora che era
stato collocato al vertice del sacerdozio, il suo sorriso non doveva diminuire
ma crescere, per dare confidenza e speranza a tutti gli uomini.
Intanto,
per convincere gli uomini che nella Chiesa dovevano sentirsi a casa propria,
dava l'esempio di naturalezza e di spontaneità che oltre tutto non gli
costava nulla, avendo sempre saputo essere se stesso nelle situazioni più
complesse e difficili. Il Time scriveva giustamente del nuovo Papa: «Papa
Giovanni non è entrato nel suo regno in punta di piedi, ma ha dato subito
la misura esatta del suo carattere e della sua autorità, da vero padrone
di casa, facendo spalancare le finestre e spostando molte
cose».
Cominciò a dare innanzi tutto l'esempio che le vere
"rivoluzioni" non si fanno demolendo, ma costruendo. Uno degli aspetti
più sconvolgenti del "mistero" di Papa Giovanni è proprio questo:
egli non ha mai rimosso una sola persona dal suo posto, o esautorato qualcuno
per poter conseguire lo scopo migliore che si prefiggeva. Ha dato l'esempio che
le nuove strutture, scaturenti dall'entusiasmo e dalla convinzione, possono
crescere tanto liberamente da soffocare, con energia spontanea, quelle vecchie e
superate. Nemmeno uno dei suoi collaboratori, dai più umili ai più
importanti, può dire d'aver patito pressioni di sorta, da parte di Papa
Giovanni, perché egli potesse raggiungere uno scopo qualsiasi.
Le
stesse nomine con cui iniziò il pontificato sono, nella maggior parte,
conferme. Volle accanto a sé il segretario particolare che lo aveva
seguito da Venezia, ed anche il cameriere Guido Gusso. Confermò il card.
Aloisi Masella nella carica di Camerlengo; nominò maggiordomo pontificio
mons. Fedeco Callori di Vignale e Maestro di Camera mons. Nasalli Rocca di
Corneliano. Tolse un pro alla qualifica di mons. Domenico Tardini,
pro-Segretario di Stato, e lo volle Segretario. Più tardi si seppe e si
vide che i due temperamenti, nonostante certe apparenze, erano molto diversi; e
soprattutto nei momenti di decisione e d'impostazione del Concilio non fu
difficile ignorare la perplessità di un uomo peraltro pio e generoso come
Tardini. Ma Papa Giovanni non volle mai fare a meno di chi poteva anche pensare
diversamente da lui. Il rispetto per gli uomini e per le loro competenze fu
sempre assoluto, in chi aveva vissuto in profondità, non solo in
superficie, per oltre cinquant'anni la totale obbedienza al Papa e alla Chiesa.
Del resto, come rispettava e stimava i punti di vista dei suoi collaboratori,
anche se nettamente contrari ai suoi, Papa Giovanni rispettava e stimava allo
stesso modo i punti di vista dell'uomo della strada, sapendo sempre distinguere
fra l'insipienza provocatoria dei "bastian contrari" e la motivata buona fede di
chi non condivideva le sue idee e le sue iniziative.
Gli erano state
proposte due date per la cerimonia della incoronazione: il 4 e il 9 novembre.
Scelse il 4, sia perché voleva che i cardinali potessero tornare prima a
riprendere il loro ministero nelle rispettive sedi, sia perché
preferì ricevere la tiara nel giorno sacro a san Carlo Borromeo, che per
lui restava uno degli esempi più persuasivi dello zelo per la
vitalità della Chiesa ed insieme l'uomo che aveva giustificato i suoi
primi impegni storici e culturali, in quanto era il protagonista del suo studio
sugli atti della visita a Bergamo per l'applicazione dei decreti del Concilio di
Trento.
Si è scritto che Papa Giovanni fece personalmente molte
telefonate in quei primi giorni di pontificato. Non è vero. Nemmeno a
Venezia usava il telefono. Né se ne servì mai durante il
pontificato, eccetto talvolta per le comunicazioni interne con la Segreteria di
Stato e il segretario particolare. È vero invece che non riusciva ad
abbandonare del tutto, anche nei modi esteriori, quella naturalezza fiduciosa
che lo aveva sempre condotto, nella vita, a stabilire un dialogo con coloro che
dovevano collaborare con lui. Presto si resero tutti conto che con Papa Giovanni
stava diventando semplice e naturale anche ciò che l'etichetta aveva per
tanto tempo reso eccezionale.
Con questo non è il caso di credere
che Papa Giovanni si divertisse a infrangere le tradizioni del palazzo vaticano.
Se non c'era un motivo proporzionato, egli non aboliva nulla. Tutto, anche in
questo, doveva semmai cedere al nuovo per crescita spontanea, per
"aggiornamento" richiesto dalle cose e dalle situazioni. Anche per Papa Giovanni
la regola ha sempre avuto il primato; e più è stata osservata con
umile scrupolosità, in piena libertà interiore, più
è stato possibile, in tutti i momenti che lo richiedevano, che ne
sbocciasse anche l'eccezione.
«SONO IL VOSTRO FRATELLO»
Papa Giovanni non ha mai fatto della retorica
né sulla semplicità delle sue origini né sulla grandezza
del suo ufficio pontificale. Ha accettato con gratitudine le une e l'altro,
restando se stesso: un'anima che amava Dio e gli uomini con pienezza e
dedizione.
È stato con questo spirito che ha accettato anche la rituale
cerimonia dell'Incoronazione. Qualcuno asserisce oggi che il semplice fatto che
sia esistito Papa Giovanni porterà i Papi di domani, forse già il
successore di Paolo VI, ad abolire questa cerimonia fastosa ed eccessiva, senza
più reali incidenze con il compito di un pontefice. È questione di tempo
e di pazienza, anche per chi soffre d'impazienza cristiana di fronte ai resti di
un "trionfalismo" ecclesiastico goffo nella misura in cui è stato
superato dagli avvenimenti esteriori e dall'evoluzione interna della Chiesa.
Resta comunque il fatto che Papa Giovanni ha trovato modo d'essere "nuovo",
anche il giorno dell'incoronazione, pur entrando nella cornice fastosa e
spossante di quella cerimonia. La novità è stata nelle sue stesse
parole, in ciò che ha detto e nel modo con cui l'ha detto, prima che il
triregno gemmato e fulgente si posasse sulla sua vecchia testa docile di
"operaio della vigna" del Signore.
Anche in quella circostanza sono state
le sfumature a rivelare la novità che animava le visuali e le speranze
del nuovo Papa. Il discorso del 4 novembre 1958 resta sorprendente anche per il
fatto che è stato il primo in cui il grande pubblico degli spettatori e
dei lettori abbia potuto unire le parole alle immagini, e rendersi conto che il
Papa "sconosciuto" eletto pochi giorni prima aveva le idee chiare, la
volontà tenace, il cuore spalancato.
Nei quattro giorni che
precedettero l'incoronazione, Papa Giovanni cercò in ogni modo di dare
alla propria giornata, e a quella di tutti i suoi collaboratori, il ritmo
più ordinato e tranquillo che fosse possibile. Ritoccò soltanto
certi sistemi di procedura nelle udienze, e seppe dare un significato
particolare a tutte quelle che concesse in quel breve intervallo, a cominciare
da quella in cui ebbe un lungo colloquio col card. Wyszynski, quasi a
significare la stima che il Papa aveva per lui. Non son pochi coloro che
ricordano con commozione un fatto molto edificante: quando il Papa, per la
cerimonia dell'incoronazione, entrò in san Pietro alto sulla sedia
gestatoria, lo accolse un irrefrenabile applauso. Prima di lui, era entrato
nella basilica, fra gli altri cardinali, Wyszynski: un applauso quasi uguale
aveva salutato il cardinale polacco. Ebbene, i primi piani televisivi sono
rimasti incancellabili nella memoria e negli occhi di chi scrive: mentre
Wyszynski veniva così calorosamente applaudito, il volto di Papa Giovanni
era quello di un padre e di un fratello al colmo della felicità per un
riconoscimento spontaneo concesso ad una creatura amata e stimata.
Fu in
quei quattro giorni di assestamento ad una vita tanto nuova che il Papa
manifestò, come ipotesi vaga, la possibilità di viaggiare un
giorno anche all'estero, oltre che in Italia. Per il "viaggiatore di Dio", come
un Papa lo aveva chiamato tanti anni prima, questa speranza non significava
affatto una rivoluzione, ma semplicemente lo sviluppo di alcune premesse che gli
sembravano le più ovvie per il proprio pontificato.
La prima
passeggiata nei giardini vaticani ebbe per mèta la grotta di Lourdes.
Papa Giovanni sostò a lungo, devoto, davanti alla statua della Vergine
Immacolata. L'ex allievo dell'Apollinare non dimenticava, nemmeno in quel
momento, la giaculatoria che aveva illuminato le attese e gli impegni della sua
adolescenza e della sua gioventù: Mater mea, fiducia mea. Sarà
quella giaculatoria a chiudere il suo dialogo terreno sulla fine della lunga
agonia, cinque anni dopo.
Fece una visita alla sede della radio vaticana,
portando la commozione fra tutto il personale. Il Papa s'interessò del
lavoro di ciascuno. A uno spagnolo ricordò un certo padre gesuita di quel
paese, che, una volta, durante un viaggio, gli aveva voluto preparare ad ogni
costo una minestra con ricetta sua personale. Papa Giovanni sorrideva al
ricordo. «Come teologo era bravo - disse - ma come cuoco... Stetti male per
alcuni giorni, dopo quella minestra!».
Piccole novità ci
furono, in quei giorni, anche a proposito del quotidiano vaticano, L'Osservatore
Romano. La Segreteria di Stato era stata invitata dal Papa a modificare il
linguaggio ufficiale nei riguardi del Papa stesso, soprattutto a semplificare
certe cose. Non era il caso di dire ad ogni occasione, ad esempio, «la
Santità di Nostro Signore» o di usare pie enfasi nel lodare
qualsiasi discorso del pontefice, come «pendiamo dalle Sue Auguste
Labbra», e cose del genere. Era molto meglio dire: «Sua
Santità», o «il Sommo Pontefice», o, semplicemente,
«il Papa». E anche il linguaggio de L'Osservatore Romano si
adeguò.
Per quanto riguardava lo stemma, non ci furono, Papa
Giovanni non lo cambiò. Andavano benissimo, anche per un Papa, la torre
dei Roncalli e il leone di san Marco, e non poteva essere più
appropriato, proprio per un Papa, il motto del Baronio: Obbedienza e pace: Papa
Giovanni era Papa perché aveva obbedito sempre alla volontà di
Dio, e il suo pontificato sarebbe stato, in tutti i sensi un pontificato speso
per preparare la pace fra i cristiani e fra tutti gli uomini. Nello stemma
furono aggiunte soltanto le chiavi incrociate e il triregno, simboli della
dignità papale.
La mattina dell'incoronazione Papa Giovanni
salì sulla sedia gestatoria e rivide la basilica fulgente in una vampata
di luci, vibrante di suoni e di cori, scrosciante di applausi. Solo i semplici
sono in grado di godere senza orgoglio delle cose splendide e solenni: le
accettano come un segno, come un simbolo, come un gioco, forse. E non ci trovano
mai né scandalo né doppio senso, poiché il loro cuore
filtra spontaneamente gli aspetti positivi anche delle manifestazioni più
esteriori. Era bello - a parte il timore istintivo di stare così in alto,
sulle spalle di altri uomini - portare la gloria di Cristo, rendergli
testimonianza davanti al mondo: allo stesso modo che, dentro di sé,
nell'intimo del cuore, gli rendeva testimonianza con l'accettazione umile della
responsabilità e di tutte le croci che in essa si sarebbero
inevitabilmente assommate.
Sulla destra della basilica, quel giorno come in
tutte le solennità anche l'antichissima statua di san Pietro era
rivestita dei paramenti pontificali. Pietro salutava il proprio successore in
vesti di festa. E da quelle vesti, il piede di marmo consunto dai baci di
milioni e milioni di pellegrini, sbucava nudo, a restituire equilibrio a tutto
quel fasto: una solennità senza eguali che però poggiava sui piedi
umili e pellegrini del pescatore di Galilea come su quelli del figlio della
campagna bergamasca.
Anche Roncalli aveva baciato innumerevoli volte quel
piede benedetto, nelle sue soste romane, e ne aveva sempre ricavato un
incitamento alla fedeltà. Ora, alto sulla sedia gestatoria mentre lo
precedeva, retta da un dignitario, la tiara argentea che fra poco gli sarebbe
stata posta sul capo, guardava spesso a quella statua vestita come lui,
là nell'angolo della grande basilica, sulla marea di teste che gridavano
non il suo nome ma soltanto «Viva il Papa!». Guardava Pietro con occhi
tranquilli e solo il suo cuore piangeva di struggente umiltà. Intanto,
con la mano guantata, dove fulgeva l'"anello del pescatore" con cui avrebbe
sigillato e ratificato i documenti più decisivi della Chiesa in cinque
anni di pontificato, benediceva quel mare umano che non accennava a sopirsi. Ed
ogni tanto quella mano benedicente non riusciva a tenere la curva rituale
all'anulare e al mignolo della destra, e si distendeva tutta nel gesto
benedicente, come la semplice mano di uno dei tanti vescovi della terra Come per
usare il "Noi" invece dell'"io" nei discorsi, ci sarebbe voluto un po' di tempo
perché anche la mano diventasse papale nel benedire, secondo le
tradizioni e le regole.
Giunto davanti alla cappella della Trinità
la sedia fu deposta a terra, il Papa discese, gli fu tolta la mitra dorata, e
cadde in ginocchio davanti al Sacramento, umile fra gli umili, tutto proteso a
chiedere ancora una volta il soccorso a quel Dio che lo aveva voluto suo
Vicario. Mentre risaliva in sedia e procedeva verso l'altare di San Gregorio,
non poté non guardare con tenerezza il piccolo gruppo dei familiari che
si stringevano gli uni agli altri, in una tribuna loro riservata, smarriti in
tanta solennità, sullo sfondo scarlatto degli addobbi. Papa Giovanni li
guardava con gratitudine e amore. Erano loro - Giuseppe, Zaverio, Alfredo,
Assunta (insieme ai nipoti, fra cui don Giovanni Battista e suor Angela) - la
spiegazione e la garanzia della sua fedeltà, della sua umiltà, il
senso del suo segreto umano e della sua semplicità inviolabile. Quello
era il giorno della sua gloria, ma anche della loro gloria.
Nella cappella
di san Gregorio vi fu ancora la "adorazione" dei cardinali. Questa volta non
poté rifiutarsi al gesto che era consostanziale alla stessa cerimonia: il
bacio del piede, oltre che della mano. Ma volle dire a ciascuno una parola
particolare quasi a umanizzare il più possibile quel rito d'obbedienza
totale. La cappella musicale, dopo gli inni di giubilo, cantò
solennemente Terza; quindi ebbe inizio la celebrazione della messa solenne
all'altare della Confessione.
Al Vangelo Papa Giovanni parlò.
Parlò in latino. Ma anche questa volta il latino lasciò trapelare
la vibrazione umanissima, l'evangelicità totale di quel
discorso-programma. Tutto il mondo era in ascolto. Quattro giorni prima il primo
radiomessaggio aveva già fatto intuire la statura e lo spirito del "Papa
di transizione", ora, per la consueta traduzione dell'allocuzione in trentasei
lingue, tutti erano in grado di prendere atto delle intenzioni di Papa
Roncalli.
Si presentò come chi desiderava soltanto somigliare al
Buon Pastore, cioè a Gesù Cristo nell'immagine più
persuasiva della sua mitezza: «Il nuovo Pontefice - disse Papa Giovanni -
rispecchia in sé, innanzi tutto, quella famosissima immagine evangelica
con cui il Buon Pastore è descritto da Giovanni Evangelista, con quelle
parole che fluirono dalla bocca divina del Salvatore: Ego sum ostium ovium. In
quest'ovile chiunque può entrare».
Fra poco il cardinale
diacono lo avrebbe chiamato solennemente «padre dei principi e dei
re», ponendogli in capo la tiara. Ma, sempre nel discorso, dopo aver
richiamato l'esempio della santità e dello zelo di san Carlo Borromeo,
Papa Giovanni volle riportare la paternità universale che gli era stata
affidata a un carattere di fraternità. Disse di sentirsi nelle stesse
condizioni di Giuseppe, figlio di Giacobbe, quando incontrò i suoi
familiari: «Io sono Giuseppe, il vostro fratello». Una
paternità ed una fraternità nello stesso tempo, erano il programma
e l'impegno umano e pontificale di Papa Roncalli. Non trascurò neanche
questa volta il problema della riunione fra tutti i cristiani: «Ho anche
altre pecore, che non sono di quest'ovile, ed occorre che le conduca, ed esse
ascolteranno la mia voce, e si farà un solo ovile sotto un solo
pastore». Era l'auspicio stesso di Cristo. Il Papa dell'ecumenismo e del
dialogo non lo avrebbe veduto compiersi, ma ne poneva con fiducia e gioia le
basi e le garanzie. Paternità e fraternità sarebbero stati, per
circa cinque anni di "servizio", i caratteri più efficaci per persuadere
i cuori alla grande speranza. La sera dell'11 ottobre del 1962, dopo aver aperto
solennemente il Concilio, sarebbe tornato ancora sulle stesse parole: «Voi
vedete qui un vostro fratello, diventato vostro padre per la grazia del Signore.
Ma tutto insieme, paternità e fraternità, a gloria di
Dio».
La cerimonia dell'incoronazione durò circa quattro ore.
L'incoronazione vera e propria solo pochi istanti. Erano le 12,40. Mentre il
coro della Sistina cantava l'antifona Corona aurea, Papa Giovanni, dall'altare
della basilica, si trasferiva processionalmente sulla loggia della facciata
dove, come era già stato fatto per Pio XII, era stato eretto un podio,
affinché tutti potessero vedere il rito. Migliaia e migliaia di binocoli,
di obiettivi fotografici, televisivi, cinematografici erano puntati su quel
podio, e cercavano di portare in primo piano, il più vicino possibile, il
volto del vecchio pontefice.
Il card. Tisserant intonò il Pater
noster, e recitò l'oremus previsto per quel momento. Poi il di
applaudire. Quindi benedisse ancora una volta, con la sua voce sicura, appena
velata d'emozione, il mondo intero.
Cerimonia dell'incoronazione di Papa Giovanni XXIII
IL VEGLIARDO DAL CUORE FANCIULLO
È difficile immaginare che cosa debba passare
nella mente e nel cuore di un Papa in un momento come quello dell'incoronazione.
Se proprio quel giorno Papa Giovanni confessava card. Ottaviani tolse la mitra
dorata dal capo del pontefice. Venne quindi avanti il card. Canali, reggendo
alto il triregno che mandava bagliori dalle cesellature d'oro e dalle pietre
preziose. Il Papa chinò il capo in segno di umiltà, e il
cardinale, sollevandosi sulla punta dei piedi, gli pose in capo la tiara,
dicendo, in forma solenne e con voce scandita: «Ricevi la tiara adorna di
tre corone, e sappi che tu sei il padre dei principi e dei re, Pontefice del
mondo intero e Vicario in terra del nostro Salvatore, al quale siano resi onore
e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen».
Papa Giovanni
rialzò il capo, e scese subito dal trono. S'avvicinò al microfono,
guardò a lungo, con tranquilla tenerezza, la marea umana che non finiva
d'aver pensato soprattutto alla sua mamma, al suo papà e alla sua casa di
Sotto il Monte, è molto probabile che in un'ora come quella
dell'incoronazione abbia pensato alla morte. Si tratta naturalmente di
supposizioni, dettate comunque dalla constatazione che proprio nei momenti di
maggior successo umano e di maggior gloria esteriore, un uomo spirituale come
Roncalli ha sempre decantato la propria gioia nella certezza della morte. Una
gioia, si badi bene, che per il fatto d'essere misurata sulla morte non è
diminuita, ma piuttosto aumentata. Nei primi giorni del papato, e anche nei
primi mesi, non figurano nel Giornale dell'Anima commenti di nessun genere. Non
vi sono che brevissimi schemi di ritiri e di esercizi spirituali. Ma è
certo che l'idea della morte gli si è fatta più domestica e serena
che mai.
È di questa idea costante e profonda che occorre tener conto se
si vuole rintracciare qualche elemento di quello che è stato da molti
definito il «segreto di Roncalli». L'agiografia superficiale trova
spesso dei misteri là dove invece non c'è che del pudore. Occorre
tener presente che nessuno, fra quelli che credono in Dio, è in grado di
accettare e vivere, santificare e comunicare la vita come colui che è
entrato da sempre in amicizia con la morte. Papa Giovanni è sempre stato
"amico" della morte. Non è un modo di dire: il Giornale dell'Anima ne
è la prova più chiara e costante.
Ora che anche la cerimonia
dell'incoronazione era finita, cominciava per il nuovo Papa la vita di ogni
giorno. Era la prova maggiore. Si vive in eccitazione di fronte agli avvenimenti
straordinari; ma occorre vivere in serenità di fronte agli impegni
consueti, se consueti possono essere definiti gl'impegni della giornata di un
Papa. Colui che era stato capace di restare sereno davanti all'elezione ed
all'incoronazione, sapeva di poterlo essere meglio ancora di fronte alla vita ed
alla responsabilità d'ogni giorno. Le ore d'emergenza richiedono gli
eroi; ma i giorni sempre uguali hanno bisogno di quegli uomini che valgono anche
più degli eroi. Papa Giovanni era stato preparato da sempre a "rendere
semplici le cose straordinarie e straordinarie le cose semplici". Quindi non
trovò difficoltà ad affrontare quello che egli stesso chiamava il
«fare il Papa».
Era il suo cuore fanciullo che lo guidava
nell'impegno più arduo della vita di un uomo.